martedì 2 gennaio 2024

Il giorno in cui divenni comunista

 

1961. Avevo dieci anni. Mia madre, per un suo qual spirito ugualitario, ci imponeva il doposcuola, di norma riservato ai poveri e agli orfanelli del Dominioni.

Nel grigio autunno padano, allora generoso di nebbie fitte e, come sempre, avvezzo a intempestivi tramonti, stare in quell’aula, mentre scendeva il buio, era qualcosa d’indicibile tristezza.

Ma il maestrino di Barengo, indossava una giacca di velluto nero che lo faceva assomigliare a uno di quei patrioti del Risorgimento, di cui studiavamo le gesta, in quell’anno del centenario, e aveva la faccia allegra, senza contare che asseriva esser amico di Boniperti.

Ci faceva fare dei giochi. Interdetto, per freddo e scarso corredo invernale dei miei compagni, il cortile, dove, in qualsiasi impresa sportiva, quei malnutriti, ma al contempo agili e forti, si sarebbero disputati i premi, lasciandomi buon ultimo, ripiegava sui quiz di cultura generale, dove ovviamente trionfavo, guadagnandomi un’antipatia quasi generale. Passò, quindi, tutto sommato, l’autunno e anche l’ancor più cupo inverno, e venne, infine, la primavera.

Reso agibile dai primi tepori, il cortile restava interdetto per autocratico decreto del Direttore Didattico, malfido della combriccola di fuorilegge in erba ch’era il nerbo delle unificate VA e V B del prolungato orario pomeridiano. Ne temeva l’evasione o, peggio, la propensione al danno alle vetrerie, di cui avevano dato copiose dimostrazioni.

I termosifoni, per burocratico dispositivo, continuavano a scaldar l’ambiente, sebbene dalle ampie finestre di razionalistica ispirazione architettonica, il sole filtrasse amplificato nella gamma degli infrarossi

Ciò non sembrava esser d’eccessivo fastidio per i miei compagni di pena, che ancora esibivano nelle orecchie – e lamentavano nei talloni – i geloni della recente indigestione di freddo, di cui si spartivano equamente le responsabilità, la loro libidine d’aria aperta e l’inefficienza d’un uso parsimonioso delle domestiche cucine economiche. Ma a me, quell’aria secca inaridiva la gola e metteva sete. Per fortuna il maestrino, più democratico dei colleghi diurni, ci permetteva di andare ai servizi con liberalità, senza esibirci nell’invereconda pantomima – mani premute sui genitali, viso contratto in spasmodiche smorfie, a significare un irrefrenabile bisogno – formalmente disapprovata, ma di fatto pretesa, da Malinverni e Guglielmetti.

Così, chiesi d’uscire.

Ci doveva essere carenza di pressione. Dopo aver girato, invano, il rubinetto nel verso giusto, mi provai a ripetere l’operazione all’inverso. La manopola, in tal modo svitata, mi rimase in mano.

Fu il panico. Mi figuravo l’ira dell’irascibile Direttore, immaginavo fatture con sfilze di zeri nelle mani di mio padre. Lasciai il rubinetto nel lavandino e tornai di corsa in classe, augurandomi che il patimento della sete, che ora mi pareva stesse varcando i confini dell’umanamente sopportabile, potesse essere bastevole espiazione della malefatta.

Dopo di me, chiese d’uscire Tartarini.

Vittorio, Gerry, Tartarini, in seguito mio buon amico di gioventù, era allora ospite del Civico Istituto Dominioni, donde sarebbe poi passato – quasi senza soluzione di continuità – alla più ferrea custodia del minorile Ferrante Aporti. Ed era un sorvegliato speciale.

Lo spiai al rientro, ma che fosse uscito per incombenza che gli avesse fatto trascurare i lavandini o che fosse ormai aduso alla più tenace omertà, nulla notai sull’espressione del suo viso che potesse denotare agnizione del mio consumato sabotaggio.

Passò del tempo, non potrei dire quanto, poiché, nel mio stato d’angoscia, ogni minuto sembrava eterno. Poi si verificò la scena che, fino a quel momento, avevo temuta, immaginata, anticipata.

La porta si spalancò con prepotenza. Nel vano si inquadrò per un attimo, fremente di stizza, la sagoma dello stizzoso Direttore. Poi, questi, con due ampie falcate, s’appropinquò alla cattedra dell’allarmato maestrino. Con tono brusco, s’informò su chi fosse uscito dalla classe.

Il maestro, accennò a me: «Veronica – disse, e indugiò un attimo, poi, come se gli fosse sovvenuto in mente tardivamente, completò – e Tartarini».

A quel «Veronica», mi si era raggelato il sangue nelle vene, ma mi ero ormai rassegnato alla mia sorte, e quasi me ne sentivo sollevato, qualsiasi castigo sembrandomi preferibile all’attesa. Fui, dunque, colto di sorpresa quando il Direttore, senza la minima esitazione, voltosi a un Tartarini stupefatto e incredulo, lo invitò, con gesto imperioso, a seguirlo, e con lui varcò, senza formalità di congedo, l’uscio della classe.

Neanche per un istante, l’equivoco mi era stato di sollievo, anzi, compresi subito che qualcosa dovevo fare per sventare quell’orribile errore giudiziario che s’andava profilando, ma quel tempo, che fino a quel momento sembrava non passare mai, si era messo, ora, a correre all’impazzata.

Cosicché, prima che mi fossi risolto all’iniziativa, la porta fu nuovamente spalancata, con vieppiù vigore, per lasciare entrare un Tartarini in lacrime che, subito, si mise a radunare le sue cose e a riporle nella cartella.

Il maestro, con affettuosa apprensione cercò d’informarsi, ne vennero fuori poche parole frammiste a singhiozzi: «... sospeso ... chissà cosa mi faranno in collegio ... gabinetto allagato ...»

Si seppe poi che, tornata alla norma la pressione, l’acqua aveva cominciato a fluire da quel rubinetto da me manomesso e che solo tardivamente il bidello – nighittoso fantasma che trascorreva le giornate in qualche segreto stambugio, inaccessibile ai più – s’era accorto della (assai modesta) pozza d’acqua formatasi sul pavimento.

Non aveva ancora finito di dire, il Tartarini, che già il bidello veniva a informare che uno dei cerberi dell’Istituto – a un tiro di schioppo dalla scuola – era venuto a prenderlo.

Non indugiai oltre, mentre Tartarini varcava la soglia, andando incontro al suo destino, mi ero precipitato dal maestro, rendendo rapida e pubblica confessione delle mie responsabilità.

Una ruga di preoccupata attenzione solcò la fronte del mio immaginario mazziniano. «Dobbiamo andare dal direttore», disse, e a me parve Pisacane che mi proponesse di salpar per Sapri. E ciò mi rincuorò.


Durante la discesa delle scale che portavano alla Direzione, le gambe mi tremavano un poco. Era il dottor Lazzarini – alfiere non secondo del clerico-fascismo cittadino, capeggiato da Oscar Luigi Scalfaro e Cronilde Musso – il terrore di grandi e bambini della Scuola Elementare Antonio Rosmini. Perfino i ragazzi del Dominioni, adusi ad esser malmenati da qualsiasi adulto, chierico o laico, avesse a che fare con loro, lo temevano e, possibilmente, lo schivavano. Bussammo alla porta, una voce brusca rispose, avanti! La stanza mi sembrava enorme. In fondo, rischiarato dall’ampia finestra alle sue spalle, sedeva il Direttore Didattico, immerso nella lettura di importantissime carte. Sembrava ignorarci. Mi volsi al maestro, in cerca d’incoraggiamento, ma anche lui sembrava impaurito. Poi, il Direttore sollevò per una frazione di secondo il suo sguardo su di noi, mentre con l’indice e il medio della mano destra, con cui reggeva il fascio di compulsate carte, faceva cenno d’approssimarsi. Ci approssimammo. Il maestro, con meno di sette parole, introdusse l’argomento, senza tediare con appelli alla clemenza, e subito mi cedette la parola. Dissi quello che dovevo dire tutto d’un fiato, a un interlocutore che sembrava assolutamente non interessato, e reimmerso nello studio delle sue pratiche. Seguì quello che mi parve un lunghissimo silenzio. Poi parlò, con il suo consueto tono acido: «Visto che non hai fatto apposta, per questa volta, puoi andare». Non aggiunse altro, tornò a dedicarsi ai suoi documenti. Eravamo congedati. Mentre ci avviavamo all’uscita, rivolsi uno sguardo interrogativo al maestro, e lui – che aveva compreso il mio pensiero, tentennò il capo, a sconsigliare ulteriori ardimenti. Ma non seppi trattenermi. Feci un rapido dietro front e, facendo appello a tutto il mio residuo coraggio, a voce alte, domandai: «E Tartarini?» Alzò lo sguardo da quei suoi fogli, balenò nei suoi occhi un lampo luciferino, poi disse – e nella sua voce palpitava indignazione per la mia sfrontatezza, noia per l’argomento e compiacimento per la propria arguzia: «Tartarini, se non merita il castigo per questa faccenda, se lo meriterà di sicuro per qualche altra». E agitando nell’aria le quattro dita della mano mi spazzò dalla sua presenza.

Ero interdetto, ma il maestro, a scanso di altri colpi di testa, mi afferrò per la spalla e mi spinse a varcare frettolosamente la soglia.

Finivo la V elementare, avevo appreso, in qualche modo, a leggere, scrivere e far di conto, ma avevo imparato bene cos’era il classismo. Quel giorno seppi di essere un comunista.

g.v.

P. S. Rividi per l’ultima volta Vittorio alla Pavesi, alla fine degli anni 70, ero operaio di linea e lui era il mio delegato di reparto. Era già malato e morì ancor giovane.


sabato 22 novembre 2014

Kveta Pacovska

Kveta Pacovska (Praga, 1928) è una bravissima illustratrice di libri per l'infanzia.
Ha avuto moltissimi riconoscimenti internazionali: Golden Apple di Bratislava, Gran Prix del Premio Catalogna, La Foglia d’oro a Francoforte, il Graphic Prize, il Premio Hans Christian Andersen.
In Italia ha pubblicato:

IL PICCOLO RE DEI FIORI (Mineedition)


PIERINO E IL LUPO (Mineedition) 

CAPPUCCETTO ROSSO (Mineedition)

ALFABETO (Mineedition)

CENERENTOLA (Nord Sud)

UNO, CINQUE, TANTI (Nord Sud) 

HANSEL E GRETEL (Nord Sud)

TEATRO A MEZZANOTTE (Nord Sud)
   


sabato 25 ottobre 2014

La buona scuola, per chi e per cosa?

J. Luis Borges finge che in un'antica enciclopedia cinese così venisse classificata la fauna: gli animali si dividono in (a) appartenenti all'Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s'agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.
Sembrerebbero le sconnesse associazioni di idee di un delirio, in realtà lo scrittore argentino propone una logica alternativa, che colloca in un oriente fittizio per giustificarne l'affrancamento dall'eredità aristotelica occidentale.



Come si vede, l'enciclopedia non dà nessuna definizione del concetto di "animale", che viene considerato intuitivo.
A partire da questa precomprensione, si procede per logica additiva, inserendo nell'insieme tutto ciò di cui, in quest'ambito, si ha notizia, nella completa assenza di gerarchie logiche e cronologiche.
Nella gran parte delle definizioni le attività del soggetto conoscente si sovrappongono e si sostituiscono all'oggetto che si vuol conoscere il quale viene perciò definito non in base a caratteristiche proprie, ma a quelle indotte.
Se si considera bene, il punto debole della classificazione non è, come si potrebbe pensare a prima vista, nelle omissioni, infatti aumentando la distanza, non c'è animale che sfugga alla categoria n e se anche vi sfuggisse, sarebbe comunque compreso nella l.
Se mai, il punto debole è la ridondanza, infatti, un cane non randagio non sarebbe incluso negli insiemi e, f, g, ma potrebbe appartenere a più di uno di quelli rimanenti.
Questa classificazione serve dunque a ben poco.
Serve a poco non perché non sia, in sé, valida (Kurba, l'elefante dell'imperatore, appartiene di certo, alla categoria a), ma perché non è attendibile.
Se, infatti, in cronache di mano differente si accennasse alla bardatura di un animale appartenente all'imperatore, a quella di un animale ammaestrato o a quella di un animale disegnato con pennello finissimo di peli di cammello, non avremmo gli elementi per comprendere che in tutti e tre i casi ci si riferisce a un elefante.



Una classificazione attendibile non può prescindere dalla definizione dell'oggetto che vuole classificare e ciò presuppone, naturalmente, la depurazione di tale oggetto da ogni aspetto di soggettivizzazione.
Anche i programmi scolastici sono un oggetto da definire e da separare dalle confuse percezioni soggettive.
La scuola di una volta, o la scuola degli anni '70 sono concetti affettivi e non scientifici, sui quali è impossibile intendersi. Eppure, e non da poco, sono stati gli orizzonti in cui si è rinchiuso il dibattito sulla scuola, non solo tra le casalinghe di Voghera, ma anche tra gli insegnanti e persino sulla stampa. Una ministra ci improvvisò sopra una fortunata riforma.
La sciagura, come nell'antica enciclopedia cinese, consiste nella coesistenza. Pur essendoci contrapposizione, paradossalmente non c'è disgiunzione, per cui si può proporre sia il ritorno alla calligrafia, che l'educazione all'affettività gay, e questo crea molto lavoro per le lobby.



Vediamo, dunque di definire questi benedetti programmi.
A quanto pare, la parola programma deriva dal verbo greco προγράϕω, che significa «scrivere prima».
Il vocabolario Treccani ne dà la seguente definizione: enunciazione particolareggiata, verbale o scritta, di ciò che si vuole fare, d’una linea di condotta da seguire, degli obiettivi a cui si mira e dei mezzi con cui s’intende raggiungerli. Più sotto, specifica: piano di lavoro che l’insegnante si propone di svolgere o che le autorità scolastiche stabiliscono venga svolto in uno o più corsi successivi di un dato ordine di scuole, ma questa seconda definizione non ci aiuta, perché rimanda all'attività di un soggetto.
La prima parte della definizione è, però, stringente, non c'è programma senza obiettivi.
Dunque, i programmi di cui parliamo si definiscono a partire dagli obiettivi che si vogliono perseguire, cioè dal chiarimento delle funzioni della scuola. 
La prima questione da chiarire è se la scuola abbia fondamentalmente una funzione educativa, o di istruzione.
Potrebbe avere (e si spera che le abbia) entrambe le funzioni, ma in questo caso andrebbero armonizzate e computate nella valutazione che si dà della scuola, oltre che, naturalmente, in quella che la scuola dà dei propri alunni.
Ma non è così, la dialettica educazione/istruzione è governata da una logica stagionalmente schizofrenica.
La domanda sociale, mediata (o inventata) dalla stampa d'informazione segue degli andamenti ondivaghi, per cui si registrano, in relazione a fatti di cronaca, continue richieste di contenuto educativo (educazione stradale, alimentare, antiomofoba, antixenofoba, antibullismo, antifemminicidio, ...) a cui segue regolarmente, in occasione della pubblicazione dei test PISA, l'imperioso richiamo a una più puntuale attenzione ai contenuti cognitivi.
Ed è poi, unicamente su questi, che, con i test INVALSI, si valuta l'azione della scuola e la formazione degli alunni.



Ma prima ancora di rivendicare la valutazione dell'azione educativa nel valore aggiunto prodotto dalla scuola, bisognerebbe notare che sia su tale piano, sia su quello cognitivo, le sollecitazioni che la scuola riceve non sfuggono alla logica additiva dell'antico zoologo cinese.
L'idea di inseguire tutte le fattispecie morali emergenti dalla cronaca è una vana fatica di Sisifo, il compito della scuola dovrebbe essere quello di fornire delle coordinate etiche da utilizzare in ogni più disparata occasione.
Allo stesso modo è folle pensare di poter insegnare informazioni che si replicano in progressione geometrica, bisogna fornire gli strumenti per cercarle, trovarle e saperle distinguere dalle bufale.
Così non è, e si fa fatica a imbastire un'idea di scuola che vada oltre l'effimero orizzonte della cronaca.
Questo perché ci mancano le due coordinate fondamentali in cui articolare gli obiettivi del programma, il punto di partenza (il bambino) e quello di arrivo (la società).
Se ci manca una definizione di questi due oggetti, diventa fallimentare il progetto di coniugare il presente con il futuro e l'individuale col sociale.



Il punto d'arrivo, cioè la società che si vuol costruire, manca per l'evidente abdicazione a un contenuto ideale della politica, ridotta a governo dell'esistente.
L'assenza di una prospettiva ideale fa si che ogni provvedimento altro non sia se non l'adattamento al presente stato di cose, cioè a una realtà fluida che cambia in tempi più rapidi di quelli della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Stanti così le cose, la scuola di domani che si va progettando, sarà magari, ma brevemente, la scuola di oggi, per diventare rapidamente la scuola di ieri.
Ci sarebbe da riflettere sul fatto che, in tempi in cui tutto si soggettivizza e si relativizza, l'unica attività in cui ha senso il punto di vista del soggetto, la costruzione del proprio futuro, sia invece oggettivizzata e resa subalterna ai capricci di un'economia travestita da forza naturale.
La scuola ha dunque una difficoltà a storicizzarsi, iscrivendo i propri programmi in una credibile prospettiva per il futuro. Ma se non si sa dove si va, è invece chiaro da dove siamo partiti. L'unica possibilità della scuola di sottrarsi alle spire del quotidiano è radicare i propri intendimenti nella lettera e nello spirito della Costituzione.



Ci manca, anche, il punto di partenza, il bambino. Una volta ce l'avevamo, che fosse quello tutto fantasia e sentimento dei programmi Ermini, o il piccolo razionalista critico dei Nuovi Programmi del 1985.
Erano, si sa, bambini inesistenti, ma designavano un tipo.
Nella visione cattolico-romantica o illuminista-progressista non si individuava tanto il bambino reale, quanto quello ideale, che si inseriva nelle grandi narrazioni collettive dell'epoca.
Avevano entrambi dei limiti, troppo circoscritto a una lettura superficiale dell'attualità del bambino l'uno, troppo ottimisticamente proteso sulle sue potenzialità l'altro, ma ambedue fissavano un ambito in cui articolare e rendere concreta l'idea di promuovere l'uguaglianza nel rispetto delle singole personalità.
Con le definizioni che ci sono, quando ci sono, oggi, possiamo fare ben poco. Come proporre un percorso tendente a un minimo comun denominatore a bambini che sono talvolta narcisisti senza padre e tal'altra nativi digitali?
Sembra che il bambino dei programmi Ermini e quello dei Nuovi Programmi coesistano (e questo è senz'altro possibile), ma abbiano radicalizzato, facendoli diventare difetti, i propri pregi (e questo speriamo sia impossibile).
C'è un limite antiumanistico in entrambe le definizioni, troppo governato dalle oscure forze dell'Es l'uno, completamente in balia di un Super-io tecnologico l'altro. E l'Io si è perduto.
Difficile fare scuola senza umanesimo.



Nessuno di questi problemi viene affrontato dall'ennesimo intervento governativo sulla scuola.
E', ancora una volta, un provvedimento acefalo che non parte da una seria e ponderata idea di scuola, a meno che non la si voglia ritrovare nella bonomia del titolo, che solletica nostalgie vintage e buon senso da caffè.
Il punto 4, Ripensare ciò che si impara a scuola, parte dalla considerazione sulla necessità di tener conto delle esigenze del brevissimo termine, del lavoro che non possiamo creare oggi.
Questa frase sottintende o un'errore strategico (pensiamo la scuola unicamente in funzione della futura domanda di lavoro) o un errore tattico (pensiamo alla scuola come contenitore per assorbire i disoccupati di oggi).
Proseguendo la lettura ci rassicuriamo, il governo vuole incorrere in entrambi gli errori.
Quanto agli insegnamenti da inserire o potenziare, musica, sport,  storia dell'arte, coding, economia, fino ad arrivare all'idiozia cosmopolita dell'insegnante madrelingua d'inglese, nessuno è sorretto da una seria motivazione didattica o inserito in un disegno complessivo che delinei la fisionomia culturale della scuola che si vorrebbe.
La logica che presiede l'elenco è esattamente quella del fantasioso zoologo di Borges, inserire quello che viene in mente, o meglio quello che si è leggiucchiato sul Sole. 24 Ore.
Non c'è organicità e non c'è progetto, insegnamenti si aggiungono a insegnamenti ed esperti ad esperti. La scuola è chiamata, ancora una volta, a risolvere problemi non suoi.
E' l'ennesima toppa all'abito di un triste Arlecchino. 


domenica 5 ottobre 2014

La scuola dei giocattoli

Torna in circolazione La scuola dei giocattoli di Antonio Rubino.
La ripubblica (cofanetto di 7 albi, € 30) l'editore Scalpendi.












La Hulotte






























La Hulotte è un periodico di storia naturale destinato a un pubblico vasto (dai bambini delle elementari ai ricercatori dell'università).
E' stato fondato negli anni 70 da Pierre Deom, insegnante non troppo soddisfatto del suo lavoro.
Esce due volte all'anno ed è da poco arrivato al numero 100.
La Hulotte non si trova in edicola e neppure in libreria, è diffuso solo per abbonamento e ha 150.000 abbonati, sparsi in tutto il mondo.

martedì 23 settembre 2014

Quando i bulli erano teddy boys


La scuola pubblica che ho frequentato era di pertinenza di una vasta area cittadina per cui, assieme a noi bambini della buona borghesia dei quartieri residenziali, la frequentavano i figli dei profughi istriani, quelli dei braccianti emigrati dal nordest, quelli dei primi immigrati del sud e gli orfanelli del Dominioni.
Tra loro non mancava qualche autentica canaglia (ma anche tra noi, pur se si sarebbe rivelata molto più tardi).
Tutti costoro, per miseria e promiscuità avevano idee molto precise ed evolute in ordine alla proprietà privata e al sesso, due questioni, ad essere onesti, più importanti dell'ortografia e della grammatica, in cui, invece, scarseggiavano.
Con un po' di attenzione, non era difficile rendersi conto che questi bambini di una sola cosa, nella loro vita, avevano fatto e continuavano a fare indigestione, delle umiliazioni.
Invece di averne fatto il callo, ne erano diventati reattivi e chi di noi manifestava un eccesso di puzza al naso, rischiava di vedersi somministrare una cura più energica ed efficace di qualsiasi cortisone.
Non era neppure difficile rendersi conto che il loro deludente presente condizionava negativamente le loro aspettative per il futuro, e se ciò toglieva loro la speranza, che è indispensabile veicolo di senso per l'esistenza, in compenso riduceva al minimo la paura per le conseguenze delle loro azioni.
La paura, loro la negavano e la disprezzavano, dunque attenzione, in loro presenza, a dimostrarsi dei fifoni. Soprattutto non si doveva far capire che si aveva paura di loro.
Se si commetteva quest'errore, due potevano essere le conseguenze, o divenire vittime predestinate e abituali della loro aggressività, o essere trascinati nelle più sciagurate delle loro imprese, pagandone il fio.
Insomma, a ben vedere, ti invitavano ad avere un rapporto tra pari, evitando tanto l'albagia che la subalternità.
Di simili individui è pieno il mondo e li incontri dappertutto, nelle strade, sui posti di lavoro, in treno e nei caffè. Mi fu utile, in adolescenza e nell'età adulta, avere imparato da bambino a che fare con loro.
Il bello della scuola pubblica è che ci incontri la società così com'è realmente e che, se vuoi, puoi imparare a viverci.

lunedì 15 settembre 2014

Finlandia - Italia 6 a 0.

Sull'ultimo numero di MicroMega (Pasi Sahlberg, Il modello Finlandia. Uguaglianza e d eccellenza) e sul n. 2/2014 di Cooperazione Educativa (Marianne Viglione, La scuola in Finlandia), si parla della scuola finlandese.
Grosso modo le differenze con il nostro sistema scolastico sono queste:
FINLANDIA
ITALIA
DIFFERENZA
Sono interni alla scuola e gratuiti tutti i servizi sociosanitari, psicologo, neuropsichiatra e dentista compreso. Per accedere ai servizi di neuropsichiatria infantile bisogna rivolgersi al medico di base, mettersi in lista d'attesa, andare in ospedale e pagare un ticket. In Italia perché il bambino sia aiutato ci vuole una famiglia che riconosca e capisca il problema e che abbia la voglia, il tempo e i soldi per affrontarlo.
(Del dentista, non ne parliamo)
La mensa è gratuita.


La mensa si paga. In Italia un bambino può sentirsi in difficoltà per i ritardi di pagamento dei genitori
C'è chi cambia scuola ai figli per aggirare il problema.
Nei 5 anni della scuola primaria non si danno voti. Fin dalla prima si danno voti in decimi. In Italia la scuola è basata sulla competizione e non sulla collaborazione.
Si favorisce una bassa stima di sé che non aiuta a superare le difficoltà.
Non si accetta la visione mercatista che esalta la concorrenza tra scuole.
Non esiste scuola privata.
L'autonomia scolastica impone la concorrenza.
Lo stato finanzia la scuola privata.
In Italia ogni scuola persegue obiettivi di breve periodo, mirando più ad autopromuoversi che a formare gli alunni.
Non ci sono prove di valutazione tipo Invalsi. Ci sono le prove Invalsi. In Italia c'è il rischio che si lavori più in funzione della valutazione che della formazione degli alunni.
Il sostegno è per tutti. Sostegno solo per alcuni tipi di certificazione. In Italia l'apprendimento individualizzato resta una teoria.
A qualcuno il nostro sistema può sembrare più serio, ma nella valutazione internazionale, la Finlandia è messa meglio:
OCSE 2012. EQUITA' E QUALITA'
Facciamo notare due cose:

  • fino a non molto tempo fa, la filosofia di fondo della scuola italiana era molto simile a quella della scuola finlandese, poi sono intervenute riforme radicali:
  • tutto sommato la posizione della scuola italiana è, per il momento, sia sul versante della qualità, che della equità molto migliore di quello dei paesi UE che ci affanniamo ad imitare.